Gloriana Rangone[1]
Abstract
Adolescenti trasgressivi, che non rispettano le regole, aggressivi in famiglia e a scuola, che mettono in atto comportamenti pericolosi per sé e per gli altri, genitori disperati, coinvolti in escalation simmetriche o appiattiti su posizioni rinunciatarie…come possiamo essere loro di aiuto? Quali lenti possono aiutarci a decodificare il significato di comportamenti tanto esplosivi e al tempo stesso quali strategie possiamo utilizzare per costruire prese in carico efficaci, tenendo conto del carattere d’urgenza che queste situazioni presentano? L’articolo si propone di discutere metodiche di intervento, che possono essere applicate nella gestione di queste difficili situazioni, corredate da riferimenti teorici e da esemplificazioni cliniche.
Parole chiave
Adolescenti trasgressivi e ribelli- Alleanza terapeutica-Terapia familiare multidimensionale (MDFT)
Abstract
Adolescents who are transgressive, who do not respect the rules, aggressive in the family and at school, who enact behaviors that are dangerous to themselves and others, desperate parents, involved in symmetrical escalations or flattened on renunciatory positions...how can we be of help to them? What lenses can help us decode the meaning of such explosive behaviors and at the same time what strategies can we use to build effective intakes, taking into account the character of urgency that these situations present? The article aims to discuss methods of intervention, which can be applied in the management of these difficult situations, accompanied by theoretical references and clinical exemplifications.
Keywords
Transgressive and rebellious adolescents-Therapeutic alliance-Multidimensional Family Therapy (MDFT)
Introduzione
Anni fa ho curato l’edizione italiana del bel libro di David Taransaud “You Think I’m Evil. Practical strategies for working with aggressive and rebellious adolescents”. (Taransaud, D., Rangone, G., 2014) Come ho esplicitato nell’introduzione al volume, è stata per me un’esperienza non solo molto interessante ma che ha anche avuto il potere di riportarmi indietro nel tempo quando, da poco laureata, avevo iniziato a lavorare come psicologa all’interno di un carcere minorile del nord Italia. Ho ricordato in modo molto vivido le emozioni intense e contraddittorie che si affollavano dentro di me quando svolgevo i colloqui con i ragazzi detenuti, finalizzati a dare al giudice elementi di conoscenza che orientassero le decisioni e lo sconcerto che mi coglieva quando le mie aspettative venivano regolarmente smentite dai fatti. Mi aspettavo di trovarmi di fronte a un ragazzino impaurito e mi preparavo a dargli conforto e ricevevo un’irrisione o addirittura una velata minaccia, mi preparavo a non farmi spaventare e dovevo trattenere le lacrime di fronte a quello che mi appariva come un bambino disperato. Quello che sapevo del motivo per cui quel ragazzo si trovava in carcere non contribuiva a rendere più facile il compito. Com’era possibile che quel ragazzino così triste e ritirato si fosse reso responsabile di azioni gravissime? La formazione come terapeuta familiare che avevo appena iniziato mi era sicuramente di aiuto. Non solo mi dava conforto perché mi ricordava che la realtà non può essere letta in termini semplicistici di causa effetto, ma mi spronava a indagare il contesto di crescita dei ragazzi, forte dell’affermazione che “Un fenomeno resta inspiegabile finché il campo di osservazione non è abbastanza ampio da includere il contesto in cui il fenomeno si verifica” Watzlawick, P., Beavin, J. H., & Jackson, D. D., 1971)
Causa la mia inesperienza di allora non penso di essere stata particolarmente utile a quei ragazzi. Sono loro grata perché da quegli incontri è nata la mia passione per il lavoro con i ragazzi “cattivi” che non mi ha mai abbandonato.
Meglio cattivo che niente…
Nel corso di una supervisione ad una comunità educativa, gli educatori portano in discussione una situazione che ha provocato in loro un notevole sconcerto. Da qualche mese avevano accolto Davide, un quattordicenne, che era stato descritto come ribelle ad ogni regola e di difficilissima gestione. Avevano adottato come strategia quella di sottolineare positivamente i comportamenti adeguati del ragazzo, comportamenti che, grazie all’instaurarsi di un’ottima relazione con l’educatore di riferimento, si era rivelata vincente. Si erano verificati progressi a scuola e anche le relazioni sia con i coetanei sia con gli adulti erano notevolmente migliorate. Gli educatori non perdevano occasione per dire al ragazzo quanto fosse bravo. Finché un giorno, del tutto inaspettatamente, di fronte all’ennesima e meritata lode, Davide sbotta “La volete smettere di dire che sono bravo? Io sono CATTIVO! Ve lo volete mettere in testa? Io sono CATTIVO!” Non è stato facile per gli educatori riconoscere che Davide, cresciuto in un contesto avverso dove essere aggressivo e ribelle aveva costituito la sua unica possibilità di sopravvivenza, non poteva rinunciare facilmente a quella parte così importante della sua identità.
Nel già citato volume, Taransaud propone l’interessante metafora del sé onnipotente e del sé ferito per significare che, se è vero che dietro i comportamenti aggressivi e ribelli degli adolescenti si cela sempre una parte sofferente e bisognosa di affetto, è anche vero che molto spesso quella parte debole è ostaggio di una forte, che non può essere facilmente né ignorata né congedata. Al contrario, va riconosciuta ed onorata perché ha svolto una funzione di protezione e di vigilanza. L’autore propone numerose tecniche di intervento che possono essere utilizzate con gli adolescenti, non solo in contesti terapeutici ma anche educativi, finalizzate a consentire l’espressione di quelle parti così antitetiche che difficilmente possono essere messe in parole. Viene proposto l’utilizzo di disegni, fumetti, film, storie, musiche, canzoni, video a partire da quelli che sono gli interessi dell’adolescente (Taransaud, D.,Rangone, G.,Pasculli. C., 2017).
Lavorare con le famiglie degli adolescenti "cattivi": la costruzione dell'alleanza
Ma una prima sfida si pone per il terapeuta familiare. Guadagnare la presenza dell’adolescente in seduta può non essere facile. L’adolescente non è un bambino e la sua presenza va conquistata. Sono sempre più frequenti le richieste di aiuto da parte di genitori che si trovano a interfacciarsi con figli adolescenti che mettono in atto comportamenti ribelli e aggressivi. Ma molto spesso i genitori chiariscono da subito che il figlio o la figlia non accetterà di venire. Spesso questi adolescenti sono reduci da anni di terapie individuali e non vogliono più sentir parlare di psicologi. Questo è sicuramente un grande problema. Se avventurarsi nel trattamento individuale di un adolescente è sconsigliabile (se non in situazioni di particolare gravità in cui i rapporti con la famiglia sono stati interrotti per protezione del minorenne, ma in questi casi altre figure adulte devono essere coinvolte), altrettanto si può dire del trattamento rivolto ai soli genitori. Vale qui la pena di ricordare che per un figlio è molto più importante poter usufruire di una piccola comprensione da parte di un genitore per quelle che possono essere state le sofferenze o incomprensioni che ha patito piuttosto che di una comprensione completa da parte di un operatore. Lavorare con i soli genitori è sconsigliabile: rinunciare al punto di vista dell’adolescente ci espone al rischio di non avere una visione completa del problema o di averla distorta, di non monitorare adeguatamente gli aspetti di rischio insiti in queste situazioni e comunque ci priva del contributo di un protagonista importante. Pertanto, il primo passo da fare è lavorare per costruire una squadra, che includa tutta la famiglia, per affrontare il problema nel migliore dei modi. Ma come fare?
Incontrare i genitori e raccogliere con loro la storia del problema, adeguatamente contestualizzata all’interno della famiglia, è di importanza fondamentale. Un’attenzione particolare, ai fini della costruzione dell’ipotesi, andrà riservata alle situazioni in cui il figlio possa aver patito delle ingiustizie in assenza di riconoscimento e adeguata protezione. Possiamo trovare mancato riconoscimento dei bisogni, dissintonie, incomprensioni e anche veri e propri traumi, a volte accaduti in contesti extrafamiliari ma che sono stati gravemente sottovalutati.
I signori Bianchi chiedono aiuto per il figlio Mauro, quasi diciottenne, che frequenta una scuola professionale. I risultati scolastici sono pessimi ma ciò che preoccupa maggiormente i genitori è il comportamento del ragazzo nei loro confronti. Non riconosce loro alcuna autorità, se contrastato urla e rompe gli oggetti, li insulta, non rispetta alcuna regola. A scuola è spesso insubordinato nei confronti degli insegnanti. Sta fuori la notte e spegne il cellulare per non essere rintracciato. Dalla raccolta della storia emerge che Mauro era in precedenza iscritto al liceo informatico e che il cambiamento era avvenuto a seguito di alcuni fatti accaduti a scuola durante il primo anno di corso. Con una certa fatica i genitori ricostruiscono gli avvenimenti. Mauro si era trovato ad essere testimone di ripetuti atti di bullismo perpetrati da parte di un diciottenne, che frequentava lo stesso istituto, nei confronti del suo migliore amico ed era intervenuto a difesa di quest’ultimo. Il risultato era stato che il bullo aveva iniziato a perseguitare pesantemente Mauro, anche minacciandolo di morte. Mauro non aveva detto niente ai genitori, ma aveva iniziato a non voler più andare a scuola finché a fronte di un aggravamento della situazione, il ragazzo era scoppiato in lacrime e si era confidato con i genitori, i quali a loro volta avevano avvertito la scuola. Nulla però era accaduto, nessun provvedimento era stato preso nei confronti dell’aggressore e il tutto era stato gravemente sottovalutato. Mauro aveva chiesto un cambiamento di scuola e così era stato fatto. Sono passati quasi quattro anni e il ragazzino piccolo e magrolino è diventato un giovane alto e robusto…ora è lui che fa paura agli altri!
I signori Bianchi, opportunamente sostenuti, riuscirono a cogliere il collegamento tra quanto accaduto e il problema attuale. Ma come conquistare la presenza di Mauro in seduta? Il ragazzo aveva alle spalle un anno di psicoterapia individuale e non voleva saperne di vedere uno psicologo.
La strategia utilizzata fu quella di togliere Mauro dalla posizione di “imputato n°1” e di accompagnare i genitori a riconoscere con il figlio la loro parte di responsabilità. Dopo un’adeguata riflessione sugli accadimenti che avevano segnato la storia di Mauro i genitori riconobbero che era sensato tornare a casa e fare al figlio la seguente comunicazione.
“Ci hanno detto che facciamo delle cose sbagliate con te e che per aiutarci hanno bisogno di parlare con te. Quindi vorrebbero vederti”. Questo intervento contiene delle premesse importanti. In primo luogo, i genitori riconoscono sia pure in modo generico di avere delle responsabilità in quello che accade a casa, in secondo luogo viene attribuita competenza a Mauro. Ricordiamo che gli adolescenti hanno un grande bisogno di essere stimati e rispondono positivamente a tutti gli interventi che sottolineano la loro capacità di pensiero e di critica.
Mauro accettò l’invito. In modo tranquillo ed educato chiarì subito la sua posizione “Sono venuto per parlare ma non ho intenzione di fare nessuna psicoterapia!” La conversazione si snodò in modo fluido, Mauro fornì molte descrizioni di quanto accadeva in casa e fu disponibile a esplicitare quali erano le cose che maggiormente lo infastidivano e anche quali cose avrebbe voluto poter fare con i genitori (“mi piacerebbe tanto andare a prendere un aperitivo con mio padre….”). L’accenno a quanto accaduto nel passato fu cortesemente rifiutato (“Ah sì ma lì ero piccolo, non mi sapevo difendere…non mi va di parlarne”). Molto lavoro è stato fatto prima di poter entrare in contatto con quel ragazzino debole e fragile che nessuno ha difeso, ma soprattutto è stato indispensabile costruire quelle condizioni di sicurezza che permettono (per usare le metafore di Taransaud), al sé onnipotente di consentire l’accesso al sé ferito.
Il caso di Mauro ci aiuta ad addentrarci nei principi base del trattamento di queste delicate situazioni. Riconoscere la competenza di tutti i membri della famiglia, lavorare per costruire l’alleanza che non può che essere basata sulla certezza di poter avere un vantaggio dal trattamento, sottolineare non solo le responsabilità di ciascuno nella costruzione e nel mantenimento del problema ma anche le possibilità di intervenire per promuovere il cambiamento sono senz’altro i capisaldi per un intervento efficace. I genitori dovranno essere sostenuti a declinare la loro funzione irrinunciabile in modo utile, senza abdicare al loro ruolo genitoriale ma identificando gli aspetti importanti e distinguendoli da quelli di secondaria importanza. Uno zaino abbandonato in corridoio può causare irritazione nel genitore ma non è una condotta pericolosa come lanciare e rompere oggetti o sparire per un’intera notte, mentre le richieste di vicinanza, mediate dalle categorie adolescenziali (prendere un aperitivo) vanno sempre accolte e valorizzate. Ovviamente dovrà essere cura del terapeuta preparare il genitore alla possibilità che l’invito tanto atteso sia inizialmente rifiutato (Sì va bene ma non stasera).
Un altro caposaldo del trattamento è costituito dalla flessibilità: a volte il terapeuta deve essere disponibile ad abbandonare il suo setting per esplorare il territorio del paziente.
Un collega, molto impegnato nel trattamento di queste difficili situazioni, mi raccontava che un adolescente aveva accettato di parlare con lui solo se fosse stato disponibile ad affiancarlo in bicicletta. Il collega aveva accettato (il servizio si trovava in un contesto rurale che facilitava questa pratica) e il ragazzo si era mostrato aperto e disponibile. Dopo alcune “sedute” svolte con questa modalità il collega aveva proposto di proseguire all’interno del servizio e l’adolescente aveva accettato senza difficoltà.
Anche la realizzazione di una seduta congiunta genitori e figlio può essere un traguardo non facile da conquistare ma decisamente irrinunciabile. È utile contrattare con l’adolescente la sua presenza secondo la modalità da lui preferita: può ascoltare in silenzio, delegando il terapeuta a portare il suo punto di vista e riservandosi di intervenire solo se non si senta adeguatamente rappresentato oppure assumersi pienamente la responsabilità di portare il suo parere.
Un adolescente, dopo aver espresso la sua contrarietà alla realizzazione di una seduta congiunta, aveva accettato solo avendo ricevuto garanzia che avrebbe potuto rimanere in silenzio per tutta la durata dell’incontro. Si era così presentato insieme ai genitori e aveva assunto la posizione del prigioniero: labbra serrate e braccia dietro la schiena. Dopo 20 minuti di rigoroso mantenimento di questa difficile assetto aveva cominciato a intervenire e la seduta si era trasformata in uno scambio vivace e costruttivo.
Un altro aspetto importante è la disponibilità da parte del terapeuta di accettare di esplorare il mondo dell’adolescente, le cose che a lui piacciono, i suoi riferimenti. Questa operazione, apparentemente banale, può non essere semplice per il terapeuta che, in quanto adulto, può cadere nella trappola di esprimere giudizi di valore, mostrare disappunto, fare raccomandazioni a fronte di narrazioni dai significati difficilmente condivisibili. Da non dimenticare che molto spesso questi racconti possono essere deliberatamente provocatori, volti a testare quanto l’adulto sia disponibile a farsi guidare nell’esplorazione di territori sconosciuti, con contenuti difficilmente condivisibili.
Alessandro aveva accettato di venire in seduta, dopo l’incontro che si era svolto con i soli genitori, ma aveva subito chiarito che non si sarebbe trattenuto più di mezz’ora. Dal momento che aveva interrotto il percorso scolastico e non risultava avesse altri interessi (oltre alla frequentazione di compagnie discutibili), gli avevo chiesto cosa gli piacesse fare durante il giorno. Alessandro aveva iniziato a spiegare con dovizia di particolari il gioco on line al quale si dedicava assiduamente, che consisteva nella partecipazione a situazioni estremamente violente dove il fine era l’eliminazione fisica degli avversari, perpetrata con modalità diverse ma sempre assolutamente spaventose. Sostenuta anche dalla mia ignoranza in materia, avevo iniziato a fare domande e a chiedere chiarimenti, tenendo a bada le emozioni negative che quegli scenari mi provocavano. Alessandro si prodigava nelle spiegazioni, cercando anche degli esempi (“lei ha per caso letto il Signore degli Anelli?”) che potessero in qualche modo farmi avvicinare a quella materia così lontana da me. Nel frattempo, il tempo passava e la mezz’ora stava per scadere. Terminato il tempo concordato accompagnai Alessandro alla porta ma il ragazzo si fermò di fronte alla libreria colma di libri e inaspettatamente esclamò “Quanti libri! Ma li ha letti tutti?”. Cominciai a spiegare che alcuni erano vecchi testi dei tempi dell’università, altri li avevo solo consultati, altri ancora letti integralmente perché mi erano stati utili nel mio lavoro. Alessandro mi interruppe e mi chiese se poteva dare un’occhiata a un libro in particolare. Si trattava del libro “L’adolescenza ferita” (Bertetti,B., Chistolini M. ,Rangone,G.,Vadilonga,F., 2004), scritto anni fa da me a da altri colleghi. Si mise a sfogliare il testo
“Ma sono tutte storie di ragazzi…ma li ha visti tutti lei?” Restammo un po’ a chiacchierare, fu molto interessato ad ascoltare il lavoro che facevamo al Centro di Terapia dell’Adolescenza, lavoro che, ci tenni a chiarire, era rivolto non solo ai figli ma anche ai genitori perché, se c’è un problema che riguarda un figlio, i genitori c’entrano senz’altro. Ci lasciammo con un nuovo appuntamento, al quale Alessandro si presentò puntuale e desideroso di parlare. E la terapia ebbe inizio.
Esplorare il territorio dell’altro, senza preconcetti né pregiudizi, comporta di solito la possibilità che il nostro interlocutore sia disponibile a esplorare il nostro territorio. In altre parole, se vogliamo che ci venga attribuita competenza, dobbiamo come prima cosa attribuirla all’altro.
Un riferimento prezioso: il modello MDFT
Molti degli spunti cui è stato fatto riferimento trovano ampia trattazione all’interno del modello MDFT di H Liddle (Liddle, H.A., 2016) specificamente dedicato al trattamento degli adolescenti con problemi di abuso di sostanze e di comportamento. Si tratta di un modello di intervento con eccellenti prove di efficacia che enfatizza l’importanza di costruire interventi che, destinati a un fenomeno multidimensionale, siano anch’essi multidimensionali. Il percorso di presa in carico coinvolge non solo la famiglia nelle sue articolazioni (genitore/i, figlio/i) ma anche gli altri sistemi significativi nella vita dell’adolescente. In posizione di spicco c’è ovviamente la scuola, al cui coinvolgimento nella gestione del problema Liddle dedica un’attenzione particolare. Anche qui la costruzione dell’alleanza risulta fondamentale. Ben al di là di un semplice scambio di informazioni, il lavoro con la scuola prevede la costruzione di una collaborazione importante, con un affiancamento operativo (“il tuo problema è anche il mio problema. Insieme possiamo risolverlo”). Ma anche altri contesti possono essere coinvolti a pieno titolo nel trattamento, sia istituzionali (comunità educativa, carcere) sia sportivi, religiosi ecc. Altro punto importante di questo modello è l’assunto che la motivazione è malleabile, ossia può essere costruita, guadagnata a poco a poco. Questo vale per gli adolescenti ma anche per gli adulti. Nel corso del training svolto a Milano nel 2016 presso la nostra scuola Alessandra Marotti (Marotti, A., 2006) collaboratrice di Liddle, ci raccontò questo aneddoto
Una madre single rifiutava di andare a trovare il figlio in carcere, adducendo come scusa il fatto di non avere l’auto. In realtà il carcere era facilmente raggiungibile con i mezzi pubblici e i motivi per cui la donna non voleva andare a trovare il figlio erano altri. Senza entrare nel merito di questi aspetti, Marotti si offrì di accompagnarla in auto in carcere, anticipando che lungo il percorso avrebbero avuto modo di chiacchierare. Stupita dalla proposta la donna accettò. Fu la prima seduta di una fruttuosa terapia.
Un altro aspetto importante riguarda la tempestività dell’intervento. Il modello MDFT ci ricorda che il tempo è importante e che gli adolescenti con problemi di comportamento possono far succedere cose molto gravi in tempi rapidi. È quindi indispensabile agire prontamente. Questo ci porta a riflettere su come spesso i tempi istituzionali non siano congruenti con le caratteristiche di queste situazioni non di rado esplosive. Il modello MDFT si basa inoltre sull’idea che il terapeuta da solo sia insufficiente: occorre costruire una squadra costituita oltre che dal terapeuta principale anche da un aiuto terapeuta e/o da altre figure educative che possano intervenire prontamente anche negli altri sistemi significativi oltre alla famiglia.
Anche se come terapeuti familiari abbiamo più dimestichezza con situazioni in cui sono i genitori a chiedere aiuto e quindi è l’adolescente a dover essere conquistato alla terapia, non dobbiamo dimenticare che ci sono contesti all’interno dei quali è l’adolescente a chiedere aiuto ed è la presenza dei genitori a dover essere conquistata. Si pensi agli sportelli scolastici, dove spesso l’accesso è sostenuto da un insegnante o anche dai compagni di classe e dove è possibile che il coinvolgimento dei genitori non possa essere dato per scontato. Non è raro che sia l’adolescente a opporsi. Se il problema presentato è però di una certa gravità, è evidente che non si può fare a meno della presenza dei genitori. Anche qui occorre essere flessibili e dotarsi di strategie. L’adolescente potrebbe essere disponibile nell’immediato a incontrare un solo genitore, oppure vorrebbe che il terapeuta incontrasse i genitori da solo, o potrebbe chiedere di rimanere in silenzio durante l’incontro…come abbiamo già visto, è indispensabile che l’operatore, senza perdere di vista l’obbiettivo, si adatti al suo interlocutore.
Il monitoraggio del rischio
Lavorando con queste situazioni è necessario tener presente che il terapeuta può venire a conoscenza di situazioni che comportano un rischio (per qualcuno all’interno della famiglia o al di fuori della famiglia) che potrebbe non essere gestibile all’interno della stanza di terapia. Molta attenzione deve essere posta a questi aspetti. Il terapeuta può cadere nella trappola di sottovalutare il rischio o di spaventarsi eccessivamente. Spesso la sottovalutazione del rischio si verifica quando il terapeuta sopravvaluta l’importanza del rapporto che è riuscito a stabilire con l’adolescente. Tale rapporto è di straordinaria importanza ma se la situazione è troppo grave non può di certo essere sufficiente a garantire l’interruzione del comportamento pericoloso e quindi la necessaria sicurezza.
Un adolescente era solito uscire la sera con gli amici, abusare di alcool e muoversi in motorino senza gli occhiali, pur essendo molto miope. La spiegazione era che gli piaceva moltissimo quella sensazione di rischio e di sfida che derivava dal muoversi velocemente in città, con una visione approssimativa e nebulosa, sostenuto dall’alcool. Si confidava con il terapeuta, il quale gli diceva ovviamente di interrompere il comportamento pericoloso, il ragazzo conveniva che era meglio smettere ma poi tornava in seduta e ammetteva di averlo fatto ancora…
Non procedere come la legge e il codice di deontologia professionale prescrivono ai fini di garantire la necessaria protezione del minorenne spesso non è dovuto a mancata conoscenza delle regole ma alla difficile gestione delle emozioni da cui è possibile essere sopraffatti in questi casi così delicati. La frequenza con cui questo accade ci deve sollecitare a muoverci su due piani ugualmente importanti: da un lato promuovere formazioni non solo istruttive e supervisioni che valorizzino tutti gli aspetti operativi, inclusa la gestione delle emozioni che questi casi suscitano; dall’altro sostenere l’utilità del lavoro di squadra e la possibilità di chiedere confronto e supporto a fronte di situazioni potenzialmente destabilizzanti.
Conclusioni
Questo excursus su un tema vasto e complesso come quello del trattamento degli adolescenti aggressivi e ribelli e delle loro famiglie non ha di certo la pretesa di essere esaustivo. Molti temi meriterebbero di essere approfonditi, tuttavia ci tengo a sottolineare l’importanza di alcuni aspetti che sono stati discussi. Primo tra tutti il concetto di flessibilità: lavorare con questa casistica implica spesso la disponibilità a lasciare il proprio setting rassicurante per entrare nel territorio dei nostri interlocutori e richiede l’utilizzo di creatività e fantasia.
Integrare rigore (non bisogna cadere nella trappola del “basta che funzioni!”) e flessibilità non è facile ed è sempre auspicabile che il terapeuta non sia solo. Altri professionisti, ad esempio educatori, possono entrare a far parte della squadra che lavora sul problema e occorre essere disponibili a prendere in considerazione, al di là della famiglia, una molteplicità di contesti significativi, che possono contenere risorse preziose. Soprattutto quando sono coinvolti più servizi e istituzioni, come accade quando l’adolescente si è reso responsabile di reati o mette comunque in atto condotte pericolose, sarà importante essere disponibili a costruire progetti di aiuto coordinati e condivisi. Il compito non è certo facile, occorre essere tenaci, non scoraggiarsi, imparare a valorizzare anche i piccoli risultati…davvero una bella sfida!
Bibliografia
- Bertetti, B. Chistolini, M. Rangone, G. Vadilonga, F. (2004). L'adolescenza ferita. Un modello di presa in carico delle gravi crisi adolescenziali. FrancoAngeli.
- Liddle, H.A. (2016) Multidimensional Family Therapy: Evidence Base for Transdiagnostic Treatment Outcomes, Change Mechanisms, and Implementation in Community Settings Family Process, 1-19
- Marotti, A. (2006). La terapia multidimensionale della famiglia. Itaca (28)
- Taransaud, D., & Rangone, G. (2014). Tu pensi che io sia cattivo: strategie pratiche per lavorare con adolescenti aggressivi e ribelli. FrancoAngeli.
- Taransaud, D., & Rangone, G., Pasculli, C. (2021). The Rage for Life. Una storia di sopravvivenza e di speranza. Fabbrica dei Segni.
- Watzlawick, P., Beavin, J. H., & Jackson, D. D. (1971). Pragmatica della comunicazione umana. Astrolabio, Roma, 35, 1-47.
[1] Gloriana Rangone è psicologa, psicoterapeuta, Responsabile settore clinico e formativo CTA Centro di Terapia dell’Adolescenza e Codirettrice della Scuola di Psicoterapia IRIS Insegnamento e Ricerca Individuo e Sistemi.